Fashion Revolution Week 2020

#whomadeyourclothes?

Etico shop
6 min readApr 24, 2020
Crollo del Rana Plaza a Dhaka, Bangladesh, il 24 aprile 2013

Questa storia inizia il 24 aprile 2013 quando a Dhaka, in Bangladesh, crolla una palazzina di otto piani che ospitava cinque fabbriche tessili che producevano per noti marchi internazionali. Nell’edificio lavoravano oltre cinquemila persone, per la maggior parte donne, per salari inferiori ai 3 dollari al giorno. Non erano garantiti diritti salariali e sindacali, né condizioni igieniche e di sicurezza; gli ultimi tre piani dell’edificio erano stati costruiti abusivamente e l’avviso di evacuare, dato dopo numerose segnalazioni di pericolo, era stato ignorato dai proprietari delle fabbriche.

Nel crollo del Rana Plaza muoiono 1129 persone e più di 2500 rimangono ferite.

Non si tratta del primo incidente di questo tipo, già centinaia di persone che lavoravano in condizioni analoghe erano morte nel corso dell’anno precedente, in Bangladesh, Cina e Pakistan.

Per la prima volta, però, la notizia ha eco a livello internazionale e l’opinione pubblica occidentale non può più voltarsi dall’altra parte. Per la prima volta, il mondo inizia a rendersi conto delle tragiche conseguenze umane del mercato del fast fashion.

Da qui nasce la Fashion Revolution: dall’esigenza di chiedere responsabilità e trasparenza alle grandi industrie del tessile, incoraggiando consumatori di tutto il mondo a unirsi e far sentire la propria voce.

“Siamo la Fashion Revolution. Siamo designer, produttori, artigiani, lavoratori e consumatori. Siamo studiosi, scrittori, manager, brand, rivenditori e sindacati. Siamo l’industria e siamo il pubblico. Siamo i cittadini del mondo. Un movimento e una comunità. Noi siamo te. Amiamo la moda. Ma non vogliamo che i nostri vestiti siano causa dello sfruttamento dei lavoratori e della distruzione del nostro pianeta. Chiediamo un cambiamento radicale e rivoluzionario. Questo è il nostro sogno.”

Fashion Revolution chiede…

…salari giusti ed equi

Nel mondo 1 persona su 6 lavora a qualche livello nel settore della moda, rendendola l’industria più dipendente da manodopera: 40 milioni di lavoratori tessili, di cui 4 milioni solo in Bangladesh. Anche se dal 2013 gli incidenti dovuti a problemi di sicurezza sono diminuiti, le condizioni dei lavoratori, di cui l’85% sono donne, rimangono pressoché identiche: guadagnano in media 44 dollari al mese (a fronte di un salario minimo pari a 109 dollari). Inoltre, il Bangladesh Child Right Forum stima che siano 7,4 milioni i bambini bangladesi costretti a lavorare fin da piccoli per contribuire al mantenimento delle proprie famiglie, divenendo vittime di abusi e torture nel 17% dei casi. In Guandong, in Cina, le giovani donne fanno fino a 150 ore mensili di straordinari, il 60% di loro non ha un contratto ed il 90% non ha accesso alla previdenza sociale.

“Nel mondo, circa una donna su tre che lavora nel settore dell’abbigliamento è vittima di violenze sessuali sul luogo di lavoro” CARE International, 2017

…rispetto dell’ambiente

A livello globale, l’industria della moda è seconda, per inquinamento, solo a quella del petrolio, ed è causa di emissioni di anidride carbonica stimate a 1 miliardo e 200 milioni di tonnellate all’anno: più dell’intero traffico aereo mondiale.

In media ogni indumento è indossato solamente 4 volte: nel suo breve ciclo di vita produce emissioni inquinanti ad ogni fase della lavorazione, dalla produzione delle fibre al loro trattamento, dal trasporto al lavaggio nelle nostre case, fino al suo smaltimento come rifiuto.

Le fibre sintetiche, in quanto derivanti dal petrolio, hanno effetti maggiori sull’ambiente, ma anche i processi di produzione delle fibre naturali comportano enormi costi ambientali: basti pensare che il cotone necessario per una normale t-shirt richiede in media un consumo di 2.700 litri di acqua (quanto normalmente beviamo in circa tre anni!). Ma non è finita: l’utilizzo di pesticidi utilizzati nella produzione delle fibre e lo smaltimento di sostanze tossiche impiegate nelle diverse fasi di lavorazione sono responsabili del 20% dell’inquinamento delle risorse idriche mondiali.

I nostri indumenti non smettono di inquinare nemmeno una volta acquistati: ad ogni lavaggio rilasciano nel sistema idrico microplastiche che raggiungono fiumi, mari e oceani ed entrano nella catena alimentare.

“Fino a 700.000 fibre possono staccarsi dai nostri vestiti in un semplice lavaggio in lavatrice” Napper & Thompson, 2016

…riuso e riciclo

Gli indumenti così prodotti sono inevitabilmente di scarsa qualità e si rovinano in fretta, inducendo noi consumatori a comprare tanto e comprare spesso, alimentando questo circolo vizioso. I nostri vestiti, sommati al carico di invenduto (che è piuttosto consistente se si considera che nelle catene di fast fashion il tempo di ricambio tra una collezione e l’altra è di 15 giorni), sono quindi infine destinati alla discarica o all’inceneritore. Si stima che i materiali tessili rappresentino il 20% dei rifiuti globali e meno dell’1% del materiale impiegato nel settore dell’abbigliamento viene riutilizzato per produrre altri capi.

“Circa 150 miliardi di capi vengono prodotti annualmente” Sustainable Apparel Materials, 2015

…trasparenza!

Anche quest’anno il movimento Fashion Revolution ha recensito 250 tra i maggiori marchi internazionali e li ha classificati secondo il Fashion Transparency Index, che valuta il grado di divulgazione delle loro politiche sociali e ambientali. Puoi trovare maggior informazioni qui.

I brand dovrebbero adottare nuove logiche di vendita circolare, offrendo di riparare i beni che vendono, prendendo indietro i capi che non vengono più utilizzati dai consumatori e dandogli una nuova vita.

E noi?

Come cittadini e consumatori possiamo iniziare questa rivoluzione dal nostro armadio: compriamo consapevolmente solo cose che amiamo veramente, di cui ci prenderemo cura e che conserveremo negli anni.

📣 USE YOUR VOICE

Chiediamo ai brand di produrre meno, produrre capi di maggiore qualità e di investire nella propria catena produttiva!

Fai un selfie e tagga i tuoi brand preferiti chiedendo maggiore trasparenza su chi e come ha prodotto l’abito che indossi, usando gli hashtag #whomademyclothes e #whatsinmyclothes!

🏡 IO STO A CASA E M’INFORMO

Com’è vero che tutti noi ci abbigliamo, questo periodo che ci costringe a stare in casa può essere però, una buona occasione per informarci su una questione che riguarda tutti noi!

In particolare, vogliamo segnalarvi due docufilm, che ci possono aiutare a capire l’emergenza ambientale causata dal settore moda:

🎬 “The True Cost”, Francia 2015

Vi aprirà gli occhi sul ciclo, purtroppo, inquinante e schiavista del fast fashion.

Potete trovarlo su Documentary Mania

Sono poi numerosi i blog dove si approfondiscono le tematiche legate all’impatto ambientale, ai diritti dei lavoratori, e più in generale agli stili di vita ecosostenibili. Vogliamo segnalarvene alcuni:

🌱 My Green Closet
🌱 Dress the Change
🌱 Il Vestito Verde

Questi sono solo alcuni spunti, ma non fermatevi qui: siate curiosi ed inventate…

…Questa storia di consapevolezza e di scelta personale può essere anche la tua!

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